martedì, novembre 30, 2004
L'Orsigna, da Roberto
Domenica scorsa io e Giovanni siamo stati all’Orsigna, insieme a mogli e figli (Giovanni ne ha due, di figli). Giovanni (che ogni tanto legge il blog, anche se non ci scrive) ci aveva già portati là questa estate per una breve escursione (me e Francesco), dopo un pranzo più in basso, a Pracchia, lungo la vecchia Porrettana.
Si chiamano Orsigna il fiume, la valle e il paese dove Giovanni ha trascorso le estati da Giovane.
Una vecchia conoscenza di Giovanni ci ha fatto da guida, portandoci a vedere l’essiccatoio dove, con un fuoco acceso e controllato notte e giorno, stanno facendo seccare le castagne, il mulino ad acqua, restaurato, dove tra quindici giorni verranno macinate le castagne, nel frattempo pronte per fare la farina, una carbonaia, per fare il carbone di legna, una capanna da carbonai e altre cose.
E’ un luogo magico, diceva Tiziano Terzani dell’Orsigna. Tanto che, dopo esser stato in tanti posti, è all’Orsigna che ha voluto morire.
Per chi dal 12 o l’11 dicembre voglia andare a comprare un po’ di farina di castagne, o di marmellata di rosa canina, o voglia provare a mangiarci (solo sabato e domenica: indispensabile prenotare; consigliabile fissare il menu):
“Il mulino di Berto”, via di Paoluccio 1, tel. 0573/490101
Orsigna, Pistoia. Circa un’ora e un quarto di macchina da Firenze.
Per uno dei prossimi incontri della C?
Per chi non l’ha letto, o non lo ricorda, riporto qui di seguito degli stralci da “L’Orsigna: ultimo amore” di Terzani.
Buonanotte da Roberto
P.S. Per me l’Orsigna è la “valle accanto”. Il “Teso”, monte con la foresta omonima che fa da spartiacque con la valle del Maresca, dove abito io, era uno dei “monti al sud” da casa Terzani ed è “il monte a nord” dalle finestre di casa mia.
L’Orsigna: ultimo amore (da “In Asia” di Tiziano Terzani, Longanesi, 1998)
Per i “Racconti d’estate” 1997 il Corriere della Sera diede come tema ai suoi collaboratori “un luogo”. Non mi venero in mente né Saigon né Benares, ma l’Orsigna.
… quando arrivai a Orsigna ero bambino, venivo dalla città a villeggiare e volevano che imparassi a comportarmi e a rispettare i tabù della montagna. Ogni bosco, ogni forra ogni roccia sembravano averne uno e il loro nomi parevan fatti apposta per non far perdere alla gente la memoria delle loro origini… La Tomba, il Fosso dello Scaraventa, dove uno che diceva di non credere ai fantasmi era stato da quelli buttato giù per le balze, la Pedata del Diavolo.
Quei posti, con le loro leggende raccontate dai vecchi, m’incantarono. Son passati cinquant’anni, sono stato nel frattempo negli angoli più strani e lontani del mondo, ma da quell’incanto non mi son liberato e l’Orsigna resta il mio ombelico sulla terra.
A Orsigna, 806 metri sul livello del mare, 75 chilometri da Firenze, ci venni per la prima volta portato da mio padre che c’era stato da giovane… Ci arrivammo a piedi, lungo la mulattiera. Non era un vero posto di villeggiatura e trovammo facilmente una camera da affittare.
Ogni anno ero li a badar le pecore con i ragazzi della mia età, a raccoglier mirtilli, a guardare la levata del sole da una delle cime. L’Orsigna è stata la mia scuola di vita. Qui ho fatto il primo ballo, ho avuto il primo amore, le prime paure, i primi sogni.
Coi primi risparmi comprai il prato dove avevo mandato l’aquilone e con le pietre del fiume ci feci una casa. Quel posto m’è servito da bussola nei miei vagabondaggi nel mondo e quando ai miei figli, cresciuti sempre in paesi d’altri, ho voluto dare radici e mettere nella memoria l’odore di una casa cui legare poi la nostalgia dell’infanzia, ho imposto loro, come regola di famiglia, di passare ogni anno due mesi all’Orsigna.
C’era in quella valle selvaggia una misura di umanità che volevo i figli imparassero e si portassero dentro.
Strana gente quella dell’Orsigna! Alcuni dicevano che venivano da una compagnia di ventura cui un signore, non potendoli pagare, aveva dato in feudo la valle. Da qui i loro nomi di famiglia – Venturi, Caporali – e quello d’un caseggiato chiamato il Vizzero. Altri dicevano che all’origine erano dei contrabbandieri che in questa valle inaccessibile, e zona di confine tra le terre del papa e quelle del granduca di Toscana, evitavano di pagare il dazio alle Gabbellette (un posto si chiama appunto così) e varcavano la montagna in un punto impervio chiamato, non a caso, Porta Franca.
Certo è che in questa valle, scura di boschi di castagni e faggi, gli orsignani, lontani dalle città – Firenze e Pistoia – di cui diffidavano, erano cresciuti liberi e pieni d’orgoglio. Dalle pecore e dai castagni tiravano tutto quello di cui avevano bisogno.
Erano gente che aveva tempo. Con un filo d’erba in bocca, stavano per ore e ore in cima a un colle a guardare il gregge con tutto l’agio di pensare di tacere. Mi parevano conoscere l’animo umano come pochi.
Erano, per necessità, grandi osservatori della natura e da quella traevano sempre grandi lezioni e il senso di un equilibrio che si rifletteva nel dar vita, a volte solo con un nome e una leggenda, a ogni sasso, a ogni forra.
Crescendo imparai ad apprezzarli sempre di più. Io andavo in capo al mondo a cercar di capire qualcosa; loro, senza saper né leggere né scrivere, restando sempre lì, ma facendo d’ogni piccolezza un capitale, s’eran costruiti un gran sapere, mi pareva.
Tornavo dal Vietnam e Alighiero, che la guerra l’aveva vista solo una volta, quando i tedeschi eran venuti a bruciare una borgata nella valle per rappresaglia d’un attacco partigiano, sembrava saperne tanto più di me. E forse era così. Io avevo visto per un attimo un grande bagliore, lui aveva visto il lento scorrere delle cose nella loro interezza.
I cinesi hanno una bella espressione per descrivere come io vivevo e ancora vivo: “Guardare i fiori dal dorso di un cavallo”. Proprio così: in venticinque anni d’Asia ho visto tanti fiori, a volte straordinari, ma dall’alto di un cavallo, sempre di corsa, sempre a distanza, senza troppo tempo per soffermarmici. Gli orsignani hanno visto pochi fiori, forse piccoli, ma ci sono stati accanto, li hanno visti sbocciare, crescere, morire. E di quello straordinario ciclo della vita son diventati esperti. E liberi. Gli orsignani vivevano in un mondo tutto loro, con regole loro, e della città rifiutavano tutto.
Col passare degli anni tante cose anche qui sono cambiate. E’ arrivata la televisione e attorno al camino, la sera, la gente non ci sta più a conversare. I pastori sono tutti scesi in piano e i loro figli son diventati cittadini. Eppure molti di loro tornano, rifanno le vecchie case, tornano per andare a funghi, per vedere sorgere il sole dalle cime e per ballare in piazza.
Torno sempre anch’io e sempre più mi domando se, dopo tanta strada fatta altrove, in mezzo a tante genti diverse, sempre in cerca d’altro, in cerca d’esotico, in cerca d’un senso all’insensata cosa che è la vita, questa valle non sia dopotutto il posto più altro, il posto più esotico e più sensato; e se, dopo tante avventure e tanti amori, per il Vietnam, la Cina, il Giappone e ora per l’India, l’Orsigna non sia - se ho fortuna – il mio vero, ultimo amore.
Si chiamano Orsigna il fiume, la valle e il paese dove Giovanni ha trascorso le estati da Giovane.
Una vecchia conoscenza di Giovanni ci ha fatto da guida, portandoci a vedere l’essiccatoio dove, con un fuoco acceso e controllato notte e giorno, stanno facendo seccare le castagne, il mulino ad acqua, restaurato, dove tra quindici giorni verranno macinate le castagne, nel frattempo pronte per fare la farina, una carbonaia, per fare il carbone di legna, una capanna da carbonai e altre cose.
E’ un luogo magico, diceva Tiziano Terzani dell’Orsigna. Tanto che, dopo esser stato in tanti posti, è all’Orsigna che ha voluto morire.
Per chi dal 12 o l’11 dicembre voglia andare a comprare un po’ di farina di castagne, o di marmellata di rosa canina, o voglia provare a mangiarci (solo sabato e domenica: indispensabile prenotare; consigliabile fissare il menu):
“Il mulino di Berto”, via di Paoluccio 1, tel. 0573/490101
Orsigna, Pistoia. Circa un’ora e un quarto di macchina da Firenze.
Per uno dei prossimi incontri della C?
Per chi non l’ha letto, o non lo ricorda, riporto qui di seguito degli stralci da “L’Orsigna: ultimo amore” di Terzani.
Buonanotte da Roberto
P.S. Per me l’Orsigna è la “valle accanto”. Il “Teso”, monte con la foresta omonima che fa da spartiacque con la valle del Maresca, dove abito io, era uno dei “monti al sud” da casa Terzani ed è “il monte a nord” dalle finestre di casa mia.
L’Orsigna: ultimo amore (da “In Asia” di Tiziano Terzani, Longanesi, 1998)
Per i “Racconti d’estate” 1997 il Corriere della Sera diede come tema ai suoi collaboratori “un luogo”. Non mi venero in mente né Saigon né Benares, ma l’Orsigna.
… quando arrivai a Orsigna ero bambino, venivo dalla città a villeggiare e volevano che imparassi a comportarmi e a rispettare i tabù della montagna. Ogni bosco, ogni forra ogni roccia sembravano averne uno e il loro nomi parevan fatti apposta per non far perdere alla gente la memoria delle loro origini… La Tomba, il Fosso dello Scaraventa, dove uno che diceva di non credere ai fantasmi era stato da quelli buttato giù per le balze, la Pedata del Diavolo.
Quei posti, con le loro leggende raccontate dai vecchi, m’incantarono. Son passati cinquant’anni, sono stato nel frattempo negli angoli più strani e lontani del mondo, ma da quell’incanto non mi son liberato e l’Orsigna resta il mio ombelico sulla terra.
A Orsigna, 806 metri sul livello del mare, 75 chilometri da Firenze, ci venni per la prima volta portato da mio padre che c’era stato da giovane… Ci arrivammo a piedi, lungo la mulattiera. Non era un vero posto di villeggiatura e trovammo facilmente una camera da affittare.
Ogni anno ero li a badar le pecore con i ragazzi della mia età, a raccoglier mirtilli, a guardare la levata del sole da una delle cime. L’Orsigna è stata la mia scuola di vita. Qui ho fatto il primo ballo, ho avuto il primo amore, le prime paure, i primi sogni.
Coi primi risparmi comprai il prato dove avevo mandato l’aquilone e con le pietre del fiume ci feci una casa. Quel posto m’è servito da bussola nei miei vagabondaggi nel mondo e quando ai miei figli, cresciuti sempre in paesi d’altri, ho voluto dare radici e mettere nella memoria l’odore di una casa cui legare poi la nostalgia dell’infanzia, ho imposto loro, come regola di famiglia, di passare ogni anno due mesi all’Orsigna.
C’era in quella valle selvaggia una misura di umanità che volevo i figli imparassero e si portassero dentro.
Strana gente quella dell’Orsigna! Alcuni dicevano che venivano da una compagnia di ventura cui un signore, non potendoli pagare, aveva dato in feudo la valle. Da qui i loro nomi di famiglia – Venturi, Caporali – e quello d’un caseggiato chiamato il Vizzero. Altri dicevano che all’origine erano dei contrabbandieri che in questa valle inaccessibile, e zona di confine tra le terre del papa e quelle del granduca di Toscana, evitavano di pagare il dazio alle Gabbellette (un posto si chiama appunto così) e varcavano la montagna in un punto impervio chiamato, non a caso, Porta Franca.
Certo è che in questa valle, scura di boschi di castagni e faggi, gli orsignani, lontani dalle città – Firenze e Pistoia – di cui diffidavano, erano cresciuti liberi e pieni d’orgoglio. Dalle pecore e dai castagni tiravano tutto quello di cui avevano bisogno.
Erano gente che aveva tempo. Con un filo d’erba in bocca, stavano per ore e ore in cima a un colle a guardare il gregge con tutto l’agio di pensare di tacere. Mi parevano conoscere l’animo umano come pochi.
Erano, per necessità, grandi osservatori della natura e da quella traevano sempre grandi lezioni e il senso di un equilibrio che si rifletteva nel dar vita, a volte solo con un nome e una leggenda, a ogni sasso, a ogni forra.
Crescendo imparai ad apprezzarli sempre di più. Io andavo in capo al mondo a cercar di capire qualcosa; loro, senza saper né leggere né scrivere, restando sempre lì, ma facendo d’ogni piccolezza un capitale, s’eran costruiti un gran sapere, mi pareva.
Tornavo dal Vietnam e Alighiero, che la guerra l’aveva vista solo una volta, quando i tedeschi eran venuti a bruciare una borgata nella valle per rappresaglia d’un attacco partigiano, sembrava saperne tanto più di me. E forse era così. Io avevo visto per un attimo un grande bagliore, lui aveva visto il lento scorrere delle cose nella loro interezza.
I cinesi hanno una bella espressione per descrivere come io vivevo e ancora vivo: “Guardare i fiori dal dorso di un cavallo”. Proprio così: in venticinque anni d’Asia ho visto tanti fiori, a volte straordinari, ma dall’alto di un cavallo, sempre di corsa, sempre a distanza, senza troppo tempo per soffermarmici. Gli orsignani hanno visto pochi fiori, forse piccoli, ma ci sono stati accanto, li hanno visti sbocciare, crescere, morire. E di quello straordinario ciclo della vita son diventati esperti. E liberi. Gli orsignani vivevano in un mondo tutto loro, con regole loro, e della città rifiutavano tutto.
Col passare degli anni tante cose anche qui sono cambiate. E’ arrivata la televisione e attorno al camino, la sera, la gente non ci sta più a conversare. I pastori sono tutti scesi in piano e i loro figli son diventati cittadini. Eppure molti di loro tornano, rifanno le vecchie case, tornano per andare a funghi, per vedere sorgere il sole dalle cime e per ballare in piazza.
Torno sempre anch’io e sempre più mi domando se, dopo tanta strada fatta altrove, in mezzo a tante genti diverse, sempre in cerca d’altro, in cerca d’esotico, in cerca d’un senso all’insensata cosa che è la vita, questa valle non sia dopotutto il posto più altro, il posto più esotico e più sensato; e se, dopo tante avventure e tanti amori, per il Vietnam, la Cina, il Giappone e ora per l’India, l’Orsigna non sia - se ho fortuna – il mio vero, ultimo amore.
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