sabato, giugno 12, 2004
Ancora sul paradosso di Claudio
La ACME di Claudio,caso limite di ditta ultraglobalizzata, ha qualche difetto. Per esempio il costo delle materie prime non e' da aggiungere, perche' costi di estrazione o simili farebbero parte del costo dei salari, pagati tutti da questa unica ditta, ne' avrebbe costi di acquisto, perche' sarebbe già proprietaria di tutto.
Ma il "fondo" e' giusto: concentrazione e globalizzazione, portate all'estremo, darebbero un sistema che non riuscirebbe più a vendere i suoi prodotti, se non a prezzi al massimo uguali a quelli che si potrebbero permettere gli acquirenti, cioe' uguali ai salari, cioe' a profitto zero. E chi glielo farebbe fare? Quindi stop alla produzione e implosione del sistema.
Il discorso somiglia molto a un vecchio discorso di Marx, quello che trovava disdicevoli il lavoro dei bambini e le condizioni di lavoro della sua epoca superata.
Più o meno, cito a memoria, Carletto diceva che ogni ditta per battere la concorrenza deve investire e spendere per accelerare la produzione. I costi si distribuiscono sul prodotto che da' un profitto maggiore solo per l'aumento quantitativo della produzione, mentre tenderà a calare il profitto tratto dal singolo elemento prodotto (auto, scarpe o quel che sia).
Naturalmente ci sono altri metodi per far aumentare il profitto: per esempio comprimere i costi del lavoro inventando nuove forme di lavoro sottopagato (es. CoCoCo). Ma la regola di fondo resta valida: il profitto tende a calare (caduta tendenziale del saggio di profitto). Cio' sul lungo periodo portera' a sviluppare sempre meno la produzione.
L'illuso pensava che la soluzione sarebbe stata una societa' dove tutti avrebbero avuto volonta'di produrre indipendentemente dal profitto, con la proprieta comune dei mezzi di produzione.
Chiunque abbia assistito a una riunione di condominio sa che quello della proprieta' comune non e' un concetto semplice, ne' facilmente accettato (probabilmente lui viveva in Inghilterra in una di quelle case a un piano, come le fanno gli inglesi quando ne hanno la possibilita', vedi N. Zelanda).
Continuo domani, Roberto
Ma il "fondo" e' giusto: concentrazione e globalizzazione, portate all'estremo, darebbero un sistema che non riuscirebbe più a vendere i suoi prodotti, se non a prezzi al massimo uguali a quelli che si potrebbero permettere gli acquirenti, cioe' uguali ai salari, cioe' a profitto zero. E chi glielo farebbe fare? Quindi stop alla produzione e implosione del sistema.
Il discorso somiglia molto a un vecchio discorso di Marx, quello che trovava disdicevoli il lavoro dei bambini e le condizioni di lavoro della sua epoca superata.
Più o meno, cito a memoria, Carletto diceva che ogni ditta per battere la concorrenza deve investire e spendere per accelerare la produzione. I costi si distribuiscono sul prodotto che da' un profitto maggiore solo per l'aumento quantitativo della produzione, mentre tenderà a calare il profitto tratto dal singolo elemento prodotto (auto, scarpe o quel che sia).
Naturalmente ci sono altri metodi per far aumentare il profitto: per esempio comprimere i costi del lavoro inventando nuove forme di lavoro sottopagato (es. CoCoCo). Ma la regola di fondo resta valida: il profitto tende a calare (caduta tendenziale del saggio di profitto). Cio' sul lungo periodo portera' a sviluppare sempre meno la produzione.
L'illuso pensava che la soluzione sarebbe stata una societa' dove tutti avrebbero avuto volonta'di produrre indipendentemente dal profitto, con la proprieta comune dei mezzi di produzione.
Chiunque abbia assistito a una riunione di condominio sa che quello della proprieta' comune non e' un concetto semplice, ne' facilmente accettato (probabilmente lui viveva in Inghilterra in una di quelle case a un piano, come le fanno gli inglesi quando ne hanno la possibilita', vedi N. Zelanda).
Continuo domani, Roberto
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